Accogliamo don Marcin Sternal, nuovo cappellano

Ci prepariamo ad accogliere nelle nostre comunità il nostro nuovo cappellano che si aggiunge a don Davide e a don Andrzej nel servizio alle nostre comunità.

Don Marcin (lo chiameremo don Martino) nasce il 9 settembre 1988 a Breslavia in Polonia.

Diventa diacono il 7 Dicembre 2013 Sempre a Breslavia dove poi viene ordinato Presbitero il 24 Maggio 2014.

Laureato nella pontificia università Teologica di Breslavia, camicia il ministero pastorale nel 2014 nella parrocchia di san Nicola a Brzeg.

Arriverà a Pavullo il 5 Settembre e presiederà la Messacon la quale gli daremo il nostro benvenuto il giorno 6 settembre alle ore 18:00 in San Bartolomeo

Dal 5 Settembre riprendiamo le celebrazioni Festive nelle nostre chiese

Da Sabato 5 settembre le sante Messe festive e prefestive riprendono nelle chiese parrocchiali. Per chi lo desidera rimarrà celebrata all’aperto la santa Messa delle ore 9:00 presso la grotta di Lourdes (in chiesa Santa Croce in caso di pioggia). Prosegue anche la celebrazione della santa Messa delle ore 19:30, sempre presso la chiesa di santa Croce (frati) che verrà poi sospesa in autunno.

Festa del Patrono 2020

Il programma delle festività patronali di quest’anno vede una notevole restrizione degli eventi e delle attività connesse alla festa del patrono.

Rimangono:

Santa Messa al cimitero in ricordo di tutti i cari defunti della comunità:

martedì 18 Agosto alle ore 19:00 al cimitero cittadino

Adorazione Eucaristica Cenacolo di lode:

Mercoledì 19 Agosto alle ore 21:00 in San Bartolomeo

Presentazione del Libro Chiese e Oratori nel pavullese:

Giovedì 20 Agosto ore 20:00 Giardini di Palazzo Ducale

Festa del patrono:

Lunedì 24 Agosto

Celebrazioni eucaristiche del mattino: ore 10 ed 11

Adorazione eucaristica ore 16:30

Solenne recita dei Secondi vespri ore 17:30

Santa Messa presieduta da Mons Arcivescovo Erio Castellucci e benedizione alla città, ore 18:00.

Perdono di Assisi 2020

IL PERDONO D’ASSISI, COS’È E COME FUNZIONA

Si tratta di un’indulgenza plenaria che può essere ottenuta in tutte le chiese parrocchiali e francescane dal mezzogiorno del 1º agosto alla mezzanotte del 2 e tutti i giorni dell’anno visitando la Chiesa della Porziuncola di Assisi dove morì San Francesco. Il Poverello ottenne l’indulgenza da papa Onorio III il 2 agosto 1216 dopo aver avuto un’apparizione presso la chiesetta

La maestosa Basilica di Santa Maria degli Angeli in Porziuncola, costruita su interessamento di S. Pio V a partire dal 1569 e che sorge a circa quattro chilometri da Assisi, racchiude tra le sue mura l’antica cappella della Porziuncola, legata alla memoria di San Francesco d’Assisi. Oggi sulla sua facciata c’è un affresco raffigurante l’istituzione del Perdono di Assisi, opera di G. F. Overbek di Lubecca (1829-1830), il quale ha così voluto decorare quell’insigne luogo.

COME NASCE IL “PERDONO D’ASSISI”?

Proprio alla Porziuncola il Santo d’Assisi ebbe la divina ispirazione di chiedere al papa l’indulgenza che fu poi detta, appunto, “della Porziuncola o Grande Perdono”, la cui festa si celebra il 2 agosto.

È il diploma di fr. Teobaldo, vescovo di Assisi, uno dei documenti più diffusi, a riferirlo. S. Francesco, in una imprecisata notte del luglio 1216, mentre se ne stava in ginocchio innanzi al piccolo altare della Porziuncola, immerso in preghiera, vide all’improvviso uno sfolgorante chiarore rischiarare le pareti dell’umile chiesa. Seduti in trono, circondati da uno stuolo di angeli, apparvero, in una luce sfavillante, Gesù e Maria. Il Redentore chiese al suo Servo quale grazia desiderasse per il bene degli uomini. S. Francesco umilmente rispose: “Poiché è un misero peccatore che Ti parla, o Dio misericordioso, egli Ti domanda pietà per i suoi fratelli peccatori; e tutti coloro i quali, pentiti, varcheranno le soglie di questo luogo, abbiano da te o Signore, che vedi i loro tormenti, il perdono delle colpe commesse”.
“Quello che tu chiedi, o frate Francesco, è grande – gli disse il Signore -, ma di maggiori cose sei degno e di maggiori ne avrai. Accolgo quindi la tua preghiera, ma a patto che tu domandi al mio vicario in terra, da parte mia, questa indulgenza”.Giotto, San Francesco davanti a Onorio III, Basilica Superiore di Assisi

LA RICHIESTA A PAPA ONORIO III

Alle prime luci dell’alba, quindi, Francesco, prendendo con sé solo frate Masseo di Marignano, si diresse verso Perugia, dove allora si trovava il Papa. Sedeva sul soglio di Pietro, dopo la morte del grande Innocenzo III, papa Onorio III, uomo anziano ma molto buono e pio, che aveva dato ciò che aveva ai poveri. Il Pontefice, ascoltato il racconto della visione dalla bocca del Poverello di Assisi, chiese per quanti anni domandasse quest’indulgenza. Francesco rispose che egli chiedeva “non anni, ma anime” e che voleva “che chiunque verrà a questa chiesa confessato e contrito, sia assolto da tutti i suoi peccati, da colpa e da pena, in cielo e in terra, dal dì del battesimo infino al dì e all’ora ch’entrerà nella detta chiesa”. Si trattava di una richiesta inusitata, visto che una tale indulgenza si era soliti concederla soltanto per coloro che prendevano la Croce per la liberazione del Santo Sepolcro, divenendo crociati.

Il Papa, infatti, fece notare al Poverello che “Non è usanza della corte romana accordare un’indulgenza simile”. Francesco ribatté: “Quello che io domando, non è da parte mia, ma da parte di Colui che mi ha mandato, cioè il Signore nostro Gesù Cristo”. Nonostante, quindi, l’opposizione della Curia, il pontefice gli accordò quanto richiedeva (“Piace a Noi che tu l’abbia”). Sul punto di accomiatarsi, il Pontefice chiese a Francesco – felice per la concessione ottenuta – dove andasse “senza un documento” che attestasse quanto ottenuto. “Santo Padre, – rispose il Santo – a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, Egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento, questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni”. L’indulgenza fu ottenuta, quindi, “vivae vocis oraculo”.PUBBLICITÀ

QUANDO VENNE ISTITUITA UFFICIALMENTE?

Il 2 agosto 1216, dinanzi una grande folla, S. Francesco, alla presenza dei vescovi dell’Umbria con l’animo colmo di gioia, promulgò il Grande Perdono, per ogni anno, in quella data, per chi, pellegrino e pentito, avesse varcato le soglie del tempietto francescano. Nel 1279, il frate Pietro di Giovanni Olivi scriveva che “essa indulgenza è di grande utilità al popolo che è spinto così alla confessione, contrizione ed emendazione dei peccati, proprio nel luogo dove, attraverso san Francesco e Santa Chiara, fu rivelato lo stato di vita evangelica adatto a questi tempi”.

A QUALI CONDIZIONI SI PUÒ OTTENERE L’INDULGENZA?

  • Ricevere l’assoluzione per i propri peccati nella Confessione sacramentale, celebrata nel periodo che include gli otto giorni precedenti e successivi alla visita della chiesa della Porziuncola, per tornare in grazia di Dio;
  • partecipare alla Messa e alla Comunione eucaristica nello stesso arco di tempo indicato per la Confessione;
  • visitare la chiesa della Porziuncola dove si deve rinnovare la professione di fede, mediante la recita del Credo, per riaffermare la propria identità cristiana, e recitare il Padre Nostro, per riaffermare la propria dignità di figli di Dio, ricevuta nel Battesimo;
  • recitare una preghiera secondo le intenzioni del Papa, per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e centro visibile di unità è il Romano Pontefice. Normalmente si recita un Pater, un’Ave e un Gloria; è data tuttavia ai singoli fedeli la facoltà di recitare qualsiasi altra preghiera secondo la pietà e la devozione di ciascuno verso il Papa.

IN QUALI GIORNI SI PUÒ OTTENERE IL “PERDONO D’ASSISI”?

Nel santuario della Porziuncola, ad Assisi, grazie anche ad uno speciale decreto della Penitenzeria Apostolica datato 15 luglio 1988 (Portiuncolae sacrae aedes) si può lucrare l’indulgenza, per sé o per i propri defunti,alle medesime condizioni, durante tutto l’anno, una sola volta al giorno.

Mentre in tutte le chiese parrocchiali e le chiese francescane sparse nel mondo si può lucrare dal mezzogiorno del 1° agosto alla mezzanotte del 2 agosto di ogni anno.

COS’È L’INDULGENZA?

Nel Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 1478-9) si legge: «L’indulgenza si ottiene mediante la Chiesa che, in virtù del potere di legare e di sciogliere accordatole da Gesù Cristo, interviene a favore di un cristiano e gli dischiude il tesoro dei meriti di Cristo e dei santi perché ottenga dal Padre delle misericordie la remissione delle pene temporali dovute per i suoi peccati. Così la Chiesa non vuole soltanto venire in aiuto a questo cristiano, ma anche spingerlo a compiere opere di pietà, di penitenza e di carità [Cfr. Paolo VI, Cost. ap. Indulgentiarum doctrina, 8; Concilio di Trento: DS 1835].

Poiché i fedeli defunti in via di purificazione sono anch’essi membri della medesima comunione dei santi, noi possiamo aiutarli, tra l’altro, ottenendo per loro delle indulgenze, in modo tale che siano sgravati dalle pene temporali dovute per i loro peccati. Mediante le indulgenze i fedeli possono ottenere per se stessi, e anche per le anime del Purgatorio, la remissione delle pene temporali, conseguenze dei peccati. (CCC 1498)»

Sagra della Madonna del Rosario

Anche quest’anno, nonostante la particolarità del momento, abbiamo deciso di festeggiare la nostra festa parrocchiale. Il programma si è ristretto a Domenica per ovvi motivi ma l’intenzione di vivere un momento forte di comunità e di fede c’è tutta. Vi aspettiamo.

secondo Incontro rassegna al Pozzo: Timoteo e Febe

Timoteo e Febe, 

diaconi del Nuovo Testamento

Pavullo, 30 giugno 2020

Domande di partenza 

  • ricordiamo dei diaconi biblici? 
  • i ministri antichi e gli attuali si possono paragonare? 
  • chi ha evangelizzato il Mediterraneo? 

1. Timoteo diacono 

o collaboratore di Dio (1Ts 3,2)

La comunità di Tessalonica fu evangelizzata e subito sottoposta a prove di confusione e divisione. Paolo invia Timoteo per confermare la fede e consolidare lʼamore. Lo presenta così:

ton adelphon hēmōn kai synergon tou Theou nostro fratello e collaboratore di Dio (1Ts 3,2).

«Nostro fratello» evoca la relazione di fede e ministero. Quanto al secondo titolo, alcuni manoscritti, seguiti dalla traduzione della CEI riportata, hanno, sì, synergon-collaboratore, ma molti altri diakonon, titolo più probabile. Lʼapposizione di Dio (invece che i prevedibili mio o nostro diacono), crea problemi ai copisti ma lo qualifica rispetto ai destinatari. 

Paolo inaugura uno schema a tre elementi: annuncio del corriere, sua raccomandazione e indicazione dʼincarico. C’erano già diaconi messaggeri e altri ne verranno. 

Il significato del titolo: un apostolo associabile a Paolo quanto uno che adempie una sua richiesta: un diacono incaricato. Apostolicità comune e distinzione di ministeri si compenetrano lʼuna lʼaltra. 

Nella Lettera ai filippesi Paolo dice che Timoteo gli ha dimostrato sintonia di fede e ministero, dopo diversi collaboratori strumentali (1,17), e «ha servito il vangelo insieme con me» (2,20ss). 

2. Febe, sorella e diacono

(Rm 16,1-2)

Paolo scrive ai Romani facendo capire che Febe dovrà leggere la lettera:

Synistēmi de hymin Phoibēn tēn adelphēn hēmōn, ousan [kai] diakonon tes ekklesias tes en Kencreais. Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della Chiesa di Cencre. 

«Nostra sorella» indica che condivide fede e annuncio. Una traduzione che non penalizza le donne: «che è anche diacono della Chiesa che si trova a Cencre». 

Cencre era il porto da cui Paolo salpò per la Siria e di quella comunità ecclesiale Febe era una diacono; negli Atti degli apostoli egli vi sosta due volte. Ciò poté favorire in lei la conoscenza dell’apostolo e lo studio della lettera, la cui complessità non ha pari. 

Viene poi la richiesta di assistenza: «Accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi, anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso». Il primo invito conta sulla comunione in Cristo e va connesso con il secondo che evoca la diaconia dei poveri. Il termine del proteggere indica chi assiste viaggiatori in difficoltà. 

Una volta a Roma, Febe avrebbe parlato ad alcuni capi giudei che credevano in Gesù, per cultura più che mai affiatati con la storia d’Israele. Ciò sorprende e fa chiedere: perché Paolo non inviò un maschio e un apostolo? Vi sono alcune ragioni di natura teologica e possono manifestare una rivelazione.

In Rm 16, altre frasi descrivono donne che Paolo chiede ai credenti romani di salutare, includendole fra i destinatari ma Paolo pone Febe dalla sua parte e ciò appare attribuzione d’autorità. Mancano le specificazioni dellʼufficio ma si legge una rappresentanza. 

3. Lettere pastorali

Il capitolo 3 della Prima a Timoteo presenta le caratteristiche indispensabili di aspiranti «episcopo» (vv. 1-7), «diaconi» (vv. 8-10.12-13) e «donne» (v. 11), unʼosservazione (vv. 14-15) e un frammento dʼinno (v. 16). Lo specchio dei diaconi riprende quello dell’episcopo. Le virtù universali valorizzano lʼumanità dei diaconi e ne delineano un profilo idoneo alle soglie. Si caldeggiano anche virtù cristiano-ministeriali per farli contribuire al mistero «della fede». 

1Tm 3,11 ne indica quattro per le «donne»: 

Gynaikas hōsautōs semnas, mē diabolous, nēphalious, pistas en pasin.Allo stesso modo le donne siano persone degne, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutto. 

Sembrano delle diacono ma il titolo manca. Hanno una missione diversa da Febe, di educazione. 

Timoteo diacono esplicito in 1Tm 4,6:

kalos esē diakonos Christou Iēsou sarai un buon ministro di Cristo Gesù. 

Si rilevano cinque legami lessicali fra i diaconi del capitolo 3 e questi (kalos, pisteōs, eusebeias, mysterion, diakonos) e legami tematici, e ciò sollecita a leggere diakonos come là. 

Nella Seconda a Timoteo emergono notizie su tenuta parziale, stanchezza o anche uscita dal ruolo di Timoteo. Non era in grado di svolgere una missione da apostolo ma è un-responsabile-che-agisce-con-una-guida, un diacono che un pastore motiva quanto rispetta. 

Alla fine

Timoteo e Febe sono dei diaconi? 

Non diaconi come oggi li vediamo o potremmo prevedere ma chiunque fosse una diacono o un diacono nella Tradizione apostolica, loro lo erano. 

Quanto alle diacone, che la Tradizione ne conosca una o più è importante ma attiene l’autorità decidere. Quanto ai diaconi, un ministero ricco di responsabilità come quello di Timoteo parla.

Rassegna estiva di incontri “Al Pozzo”

Durante il periodo estivo come parrocchia lanciamo una rassegna di incontri culturali e formativi.

Nei martedì che verranno, nel chiostro del Convento dei frati, si svolgeranno alle ore 21.00 una serie di conferenze.

Vi diamo notizia delle prime tre serate:

Martedì 23 Giugno: “Gli edifici Chiesa e la modernità: arte, rifunzionalizzazione, riutilizzo: dove andremo a finire?

Martedì 30 Giugno: Timoteo e Febe, diaconi del Nuovo Testamento.

Martedì 7 Luglio: Presentazione del Libro “Questo è di seguir Cristo nel suo regno” Chiese ed oratori del Pavullese: Intervengono Livio Migliori, accademia dello Scoltenna; Francesco Marzani ed Andrea Pini, autori.

Commento alle letture della solennità di Pentecoste

Dagli Atti degli apostoli (At 2,1-11)

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. 

Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

Commento

Luca descrive anzitutto l’apparire di “lingue come di fuoco” e il dono che i discepoli ricevono di “parlare in altre lingue”, cioè di far conoscere le opere di Dio nelle lingue dei presenti. Lo fa anche usando delle parole che evocano degli antefatti biblici: il fuoco che al Sinai accompagna la rivelazione sul monte a Mosé e la brace che ha purificato le labbra del profeta Ezechiele.

Il dono di parlare in altre lingue venne, dice ancora, dal “lo Spirito” e lo stesso Spirito “dava loro il potere d’esprimersi”. Gesù aveva su di sé lo “Spirito del Signore”, che l’aveva “mandato ad annunciare” ai poveri l’anno di grazia (Lc 4,18).

Quello che faceva uno solo, Mosè, dando voce ai comandamenti di Dio; quello che faceva un solo profeta, Ezechiele, recando la Parola a persone chiuse nel dolore; quello che faceva Gesù a favore dei poveri; questo poterono annunciare coloro che erano radunati il giorno di Pentecoste.

Ognuno riceve ancora, da quel battesimo della Chiesa, il potere di annunciare e di farsi capire da chi crede, da chi simpatizza e da chi non crede.

Dalla Prima lettera ai Corinzi di Paolo (1Cor 12,3b-7.12-13)

Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune.

Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

Commento

Nella prima parte Paolo enuncia l’unità della distribuzione di carismi da parte dello Spirito, di ministeri da parte del Signore (Gesù) e di attività da parte di Dio (Padre). Lo Spirito rende partecipi per primo i credenti di quanto offrono il Figlio tramite i ministeri e il Padre con le attività che genera nel mondo.

I carismi dello Spirito infatti vengono distribuiti a tutti e permettono la partecipazione dei fedeli a ciò che i ministeri fanno con la loro autorità; inoltre danno la forza di compiere a loro volta qualcuna delle opere di Dio. 

Nella seconda parte Paolo dice che il corpo di Cristo si esprime in molte membra, evitando che un ministro ne sia l’unico attuatore. Aggiunge di nuovo che riguarda tutti il battesimo nello Spirito e nel corpo e, pensando agli israeliti nel deserto, che tutti “siamo stati dissetati” (alla roccia) “da un solo Spirito”.

Gli israeliti vennero dissetati come tipo dei credenti, al tempo di Paolo provenienti sia dai Giudei sia dai Greci, sia dai liberi sia dagli schiavi. Lo Spirito non è quindi solo il soffio che dà vita al nuovo Adamo (tramite la risurrezione di Cristo) ma anche l’acqua di cui è composto il suo corpo.

Il corpo mistico di Cristo, la sua Chiesa, si va formando con coloro che si lasciano unire e dissetare dallo Spirito Santo: riceviamo lo Spirito e accettiamo che Cristo ci inserisca nel suo corpo mistico. 

Alleluia, alleluia.

Vieni, Santo Spirito,

riempi i cuori dei tuoi fedeli

e accendi in essi il fuoco del tuo amore.

Dal Vangelo secondo Giovanni (20,19-23)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

Commento

Il “primo” giorno “della settimana”, in cui Gesù apparve agli Undici, corrisponde a quello in cui “Dio disse: ‘Sia la luce!’. E la luce fu. […] E fu sera e fu mattina: giorno primo” (Gen 1,3.5). La luce della nuova creazione è lui e, derivatamente, anche i discepoli.

Dice san Giovanni che Gesù «soffiò» su loro. A soffiare per primo fu Dio, quando creò con la terra del suolo Adamo e soffiò nelle sue narici un alito di vita. Chi riceve lo Spirito del Risorto risusciterà come lui e potrà operare cose più grandi di quelle che ha fatto Gesù. Creta e Spirito è il discepolo, un tesoro in vasi di creta diceva Paolo.

Come si fa a diminuire le fragilità e aumentare la maturità del cristiano che lo Spirito alimenta in noi? Ricevendo lo Spirito Santo. Non basta infatti che Gesù l’abbia effuso, mentre moriva in croce (“rese lo Spirito” dice l’evangelista). Non basta che lo Spirito scenda, bisogna che lo riceviamo, che gli lasciamo preparare la casa dove vogliono abitare il Padre e il Figlio.

Lo Spirito Santo rende tutti i credenti profeti. Lo diceva con gioia san Francesco che voleva il nuovo Ordine “aperto allo stesso modo ai poveri e agli illetterati, e non soltanto ai ricchi e ai sapienti. «Presso Dio – diceva – non vi è preferenza di persone, e lo Spirito Santo, ministro generale dell’Ordine, si posa egualmente sul povero e il semplice»” (Tommaso da Celano, Vita seconda, 193: FF 789). 

Invocava così che a guidare l’Ordine fosse più lo Spirito di lui e sperava che ogni frate facesse la sua parte senza bisogno di direttive. Il nostro desiderio è simile, in questa solennità: che ognuno segua le segnalazioni dello Spirito fino in fondo e si metta a fare tutto quello che gli suggerisce con le forze che riceve.

Commento alle letture della solennità dell’Ascensione

Dagli Atti degli apostoli (At 1,1-11)

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».

Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

Commento

Gesù ha continuato a parlare del regno di Dio dopo la sua risurrezione, e l’autore degli Atti lo racconta facendo filtrare che la predicazione non si è fermata neppure con lui, specie intorno alla “tavola” alla quale si riunivano gli apostoli e nel portico di Salomone del tempio. Il primo messaggio di questa pagina sembra questo ed è invitante.

Lo stacco da terra per il suo esodo al Padre è l’altro nucleo di questa pagina e le Chiese lo considerano con attenzione, ascoltandolo nella domenica dell’Ascensione. Avviene che egli ha appena smesso di parlare della forza che, da lì in poi, avranno dallo Spirito Santo (“detto questo”) e “fu elevato in alto”. Il passivo dice che non va da sé ma è il Padre che lo “tira su”. 

L’ascensione al Padre è il compimento della vita umana di Gesù, tanto desiderato da lui che è difficile immaginarlo. Gesù l’annunciò almeno tre volte, in ognuno degli annunci della sua Pasqua, e l’attesa si fece più decisa quando indurì il suo volto orientando se stesso e i discepoli verso Gerusalemme.

Tale attesa – d’altra parte – non era un’ossessione o qualcosa di febbrile, come avviene negli entusiasti, perché, anzi, si connette con l’amore fraterno e la responsabilità nella storia di tutti. Si preoccupa di Israele (i discepoli colgono bene, anche se un po’ distorcono) e del proseguimento della testimonianza anche fuori dei suoi confini. Se ne occuperà ancora, fino a quando “verrà”.

Alleluia, alleluia, alleluia.

Popoli tutti, battete le mani!

Acclamate Dio con grida di gioia,

perché terribile è il Signore, l’Altissimo,

grande re su tutta la terra. R.

Ascende Dio tra le acclamazioni,

il Signore al suono di tromba.

Cantate inni a Dio, cantate inni,

cantate inni al nostro re, cantate inni. R.

Perché Dio è re di tutta la terra,

cantate inni con arte.

Dio regna sulle genti,

Dio siede sul suo trono santo. R.

Dalla Lettera agli Efesini (Ef 1,17-23)

Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore.

Egli la manifestò in Cristo,

quando lo risuscitò dai morti

e lo fece sedere alla sua destra nei cieli,

al di sopra di ogni Principato e Potenza,

al di sopra di ogni Forza e Dominazione

e di ogni nome che viene nominato

non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.

Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi

e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:

essa è il corpo di lui,

la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

Commento

La seconda lettura ha due parti, una discorsiva, l’altra innica, ma ambedue di preghiera. L’autore chiede che Dio Padre riversi lo Spirito di sapienza sui destinatari dello scritto, perchè ricevano da lui la conoscenza, una relazione che li familiarizzi con lui tramite l’assiduità. La conoscenza è intellettuale e, di più, riguarda tutta la vita, come il comandamento di amare con tutto se stessi.

Gli occhi illuminati da tale familiarità faranno comprendere la grandezza della speranza che li chiama. Essa è una grazia che verrà domani e una che viene oggi: il futuro accesso alla pienezza della gloria, la presente dispensazione di potenza nei prodigi, che fanno sperimentare ai credenti saldezza e forza di testimonianza. La vita soprannaturale fa dimenticare i mali che si sopportano nell’attesa e godere di una consolazione che dà un colore più mite all’attesa stessa.

L’inno celebra la “potenza verso di voi credenti” affermando in chi essa si manifestò, generando la conoscenza soprannaturale che ha invocato su di loro. Fu la risurrezione a portare il Cristo sopra ogni potenza dell’universo, anche sugli angeli decaduti che avvelenano l’atmosfera con le loro lotte a Dio e tengono sotto la schifezza delle loro accuse e seduzioni le persone buone.

“Tutto infatti” il Padre ha sottomesso a Gesù risorto che, per la Chiesa, è il capo, il generatore di vita e la speranza di compimento. Cioè dice che tale potenza di salvezza e novità di vita è già stata data nella Pasqua di Cristo e che ora si tratta solo di riceverne il frutto, di accettare che porti frutto in loro e di operare perché tutte le cose vengano coronate di bellezza.

Nella novena di Pentecoste è bene aggiungere che ciò avviene e avverrà nello Spirito del Signore. Egli prepara la materia e, soprattutto, le persone, alla comunione. Così il disegno del Padre procede nella storia e attende la cooperazione dei disegni umani, consolidando un processo di trasformazione che ha sempre nuove espressioni mentre sopporta gli inevitabili scacchi.

Alleluia, alleluia.

Andate e fate discepoli tutti i popoli, dice il Signore.

Ecco, io sono con voi tutti i giorni,

fino alla fine del mondo. (Mt 28,19a.20b)

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 28,16-20)

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Commento

Cosa salta all’occhio in questo vangelo? Che alcuni si prostrino e altri dubitino, è comune a tanti racconti della Pasqua; non così il comando di andare e fare discepoli i popoli (che pretesa!), il battesimo nel nome della Trinità, l’insegnamento di tutto quello che ha comandato e, finalmente, la promessa di essere sempre con loro.

Questa promessa ha delle parole che l’evangelista ha già usato in uno dei primi racconti. Ricordate? L’angelo dice a Giuseppe che il bambino concepito da Maria sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi (Mt 1,23). In tutto il Primo vangelo Gesù sta con i suoi discepoli ma non tanto da manifestare che è Dio con loro. Il nome Emmanuele quando diventa realtà?

La Pasqua avvia una nuova forma di compagnia di Gesù, dotata del potere che egli ha di sottomettere la morte, e dunque quell’accompagnamento che libera dal male e dall’angoscia. Poiché è risorto può stare con loro nello Spirito Santo tutti i giorni della storia. Hanno sofferto la separazione e non sono più uniti, come prima, in base al bisogno ma per scelta, purificati da lui.

La novità più forte è quell'”Andate” e “fate discepoli tutti i popoli”, che è un po’ tanto, pensando a come lui volle rivolgersi solo agli israeliti e a come gli undici erano ripiegati e dubbiosi. Ha dei limiti perché significa accettare l’imbarazzo dell’incontro con un altro invece che confidare nei legami acquisiti, testimoniare invece che fare proselitismo, diffondere la Parola invece che perdersi nel comunicare.

Questa novità dipende da quel potere che la festa dell’Ascensione celebra, il “potere” che Gesù non si procura ma che ricevette quando meno se l’aspettava: “«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra»”. Fa eco a questa frase la domanda del “Padre nostro” che la santificazione del nome, la venuta del Regno, e la poiesi della volontà del Padre sia fatta “come in cielo così in terra”.

Significa che chiediamo aiuto per poter rispondere a Dio come il Figlio risponde al Padre. Il Cielo non è la stratosfera ma la comunione e la libertà delle persone divine. Vivere come il Figlio la relazione con Dio nello Spirito è conformarsi, dare attenzione, farsi prossimo perché altri possano sperare, credere e amare anche attraverso degli arnesi come noi.

Commento alle letture VI domenica di Pasqua

Dagli Atti degli apostoli (At 8,5-8.14-17) 

In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città. 

Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.

Commento

I Sette, dispersi dalla persecuzione che ha già ucciso Stefano, vanno verso nord e verso i pagani. Avevano addosso il dolore per il fratello, avvertivano la minaccia e si aspettavano l’ostilità ma quella gente accoglie la Parola. Nella sofferenza, si attua la profezia di Gesù: “«di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra»” (At 1,8).

Filippo, uno dei Sette, evangelizza il Cristo, cioè la persona e la Pasqua di Cristo: il servo (da Isaia 52—53) la cui sofferenza è l’occasione della salvezza di tutti. A corroborare la parola giungono segni di potenza, specie esorcismi e guarigioni di malanni della schiena e degli arti. E’ un fatto e, insieme, un simbolo: le persone si rialzano, ritte in piedi (At 14,10), e gridano per l’esperienza della libertà.

Arrivano allora gli apostoli Pietro e Giovanni che, a Gerusalemme, avevano appreso le novità, e ora vengono in Samaria. Pregano che scenda lo Spirito su «loro», i Samaritani. Si compie così la parola di Pentecoste: “«Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo»” (At 2,38).

Erano stati battezzati, dice il testo, sembra da Filippo stesso, nel nome del Signore Gesù; manca il nome della Trinità e i due apostoli pregano e impongono loro le mani, e quelli ricevono lo Spirito. Questo manifesta la continuità dell’opera di Dio nella Chiesa che, nella persona degli apostoli, manifesta il suo dono, che edifica tutti.

Dal Sal 65 (66)

R. Acclamate Dio, voi tutti della terra.

Acclamate Dio, voi tutti della terra,

cantate la gloria del suo nome,

dategli gloria con la lode. Rit.

Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!

A te si prostri tutta la terra,

a te canti inni, canti al tuo nome». Rit.

Venite e vedete le opere di Dio,

terribile nel suo agire sugli uomini.

Egli cambiò il mare in terraferma; passarono a piedi il fiume:

per questo in lui esultiamo di gioia.

Con la sua forza domina in eterno. Rit.

Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,

e narrerò quanto per me ha fatto.

Sia benedetto Dio,

che non ha respinto la mia preghiera,

non mi ha negato la sua misericordia. Rit.

Dalla Prima lettera di Pietro (1Pt 3,15-18)

Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.

Commento

La lettera ai cristiani che devono emigrare per minacce pubbliche ritorna sull’atteggiamento da tenere: non quello reattivo rispetto alle questioni che si vedono ma quello fedele al mandato divino di dare testimonianza. Sullo sfondo un passo di Isaia: “Non abbiate paura. / Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. / Egli sia l’oggetto del vostro timore” (Is 8,12s).

Più da vicino l’autore ricorda la beatitudine e gli insegnamenti di Gesù ai testimoni: “Beati i perseguitati per la giustizia, / perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,10); “Non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire” (Lc 12,11s).

Adorare Cristo nei cuori forse suppone che non vi siano altri luoghi dove poterlo fare. Se qualcuno chiede ragione della speranza che è in noi può significare che si vive la prova con speranza e che essa persuade i pagani che non hanno la speranza di abbracciare Cristo dopo la morte (1Ts 4,13). 

La testimonianza è altro dallo spirito di rivalità o conquista e distingue l’esule cristiano da quello etnico o politico. Dolcezza e retta coscienza vuol dire non fare elogi a sé o alla propria causa ma sperare che Cristo si riveli anche a loro. Il problema dei cristiani sulla scena pagana è vivere senza peccati, in modo da creare persuasione. 

Si torna così al motivo ricorrente della lettera: la pazienza a motivo dell’atteggiamento di Gesù davanti alla sua morte: “perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati”. La frase, di un inno liturgico, ricorda la resilienza e la vittoria di Cristo e motiva i credenti a perseverare, contenti di poter avvicinarsi a lui. 

Alleluia, alleluia.

Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,

e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui. (Gv 14,23)

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,15-21)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. 

Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

Commento

La lettura quasi continua del Vangelo secondo Giovanni dà alla messa di questa VI domenica di Pasqua di fermarsi davanti al Cristo che ha lavato i piedi, ha chiesto di accettare che morirà e, a Tommaso e a Filippo, ha chiesto di amare anche se non sanno farlo come lui. L’amore di Dio è a disposizione nel concreto, infatti, non in un altrove divino generico. 

Lo Spirito dà di comprendere, perché del Padre e del Figlio. Il secondo Paraclito (significa difensore e il primo era Gesù) insegnerà ogni cosa, cioè il senso che ora sfugge, perchè, come Pietro alla lavanda dei piedi, si capisce dopo. Sarebbero orfani se Gesù morisse e basta, ma manda lo Spirito a proseguire la sua assistenza nel processo che il mondo intenta a Cristo e ai suoi. 

Si può e deve amare la persona che Dio ci ha dato come Figlio e Salvatore, amare Gesù. Amarlo uscendo dalla presunzione di dominare gli eventi e dalla paura di non riuscire a farlo: ricevere da lui l’amore del Padre e amare Gesù. Aver bisogno del suo perdono per amare ci fa vergognare un po’ ma egli ama tanto che non possiamo fare che questo: ricevere l’amore. 

Chiarisce che questo comporta osservare i suoi comandamenti, con il fine dunque di fare con lui quello che facciamo: non per far bene quel che ci preme o perché così si va più d’accordo: farlo con il fine di alimentare la relazione. Vivere la comunione perchè migliora la nostra amicizia con lui, la nostra di singoli e di comunità.